Smart working | parte IV
Cinquanta sfumature di smart working: facciamo chiarezza
L’impennata dei contagi dell’ultima settimana ha costretto il governo ad anticipare l’uscita del nuovo dpcm, inizialmente previsto per il 15 ottobre.
Tra le tante misure che verranno prese per tentare di contenere il contagio ed evitare che si raggiungano i livelli preoccupanti già toccati in altri Paesi europei, probabilmente sarà chiesto alle aziende di aumentare ulteriormente la percentuale di smart working (ora al 50%) per contingentare i contatti tra le persone negli uffici.
Lo smart working rimane quindi una delle strategie più efficaci per limitare il contagio da Covid-19 in ambito lavorativo.
Questa “nuova” modalità di lavoro sembra continuare a diffondersi a macchia d’olio e ciò anche perché porta con sé un grande vantaggio: permette alle aziende di proteggere i singoli lavoratori senza essere necessariamente costrette a fermare l’attività produttiva.
Proprio per questo suo duplice beneficio, dall’inizio della pandemia il lavoro a domicilio è cresciuto del 90% grazie all’uso delle tecnologie e all’adattamento di alcuni contesti professionali al “lavoro da casa”, affievolendo le pesanti ricadute sul tasso di disoccupazione.
Lavorare dalla propria abitazione è diventato per molti la normalità e sono entrati nel nostro vocabolario di tutti i giorni termini nuovi come smart working, telelavoro e lavoro agile, spesso usati a proposito o - forse peggio - come sinonimi.
Può quindi essere utile fare chiarezza una volta per tutte.
SMART WORKING
Il termine “smart working” è ormai sulla bocca di tutti, ma pochi sanno che in inglese questa parola ha un significato leggermente diverso.
Gli anglosassoni, per identificare il lavoro eseguito nelle proprie abitazioni, utilizzano ben altri termini come working from home (WFH) oppure remote working. Questo perché nell’accezione originale del termine, si fa riferimento a una particolare modalità di lavoro flessibile caratterizzato da processi, tecnologie e strumenti che lo rendono più funzionale, più “intelligente” (appunto “smart”).
Non si fa alcun riferimento al luogo in cui si porta avanti il telelavoro, ma solo alle tecnologie utilizzate per renderlo migliore.
In Italia, invece, quando si parla di smart working, si fa riferimento al lavoro agile: un lavoro subordinato che però è flessibile nei tempi e nei luoghi.
LAVORO AGILE
Ultimamente si sente parlare spesso di “lavoro agile”, soprattutto grazie allo sdoganamento ufficiale dell’espressione nel decreto-legge sul Covid-19 dello scorso marzo.
La parola “agile” può essere fuorviante ed è quindi importante fare una premessa.
Quando parliamo di “Agile”, con l’iniziale maiuscola, ci riferiamo ad una metodologia - nata nell’ambito dell’ingegneria del software e poi diffusasi anche in altri campi - basata sui seguenti valori:
· Le persone e le interazioni sono più importanti dei processi e degli strumenti
· È più importante avere software funzionante che documentazione
· Bisogna collaborare con i clienti oltre che rispettare il contratto
· Bisogna essere pronti a rispondere ai cambiamenti oltre che aderire alla pianificazione
Tutto ciò non ha assolutamente nulla a che fare con il lavoro a domicilio ed è bene conoscere e tenere separati i due concetti.
Tornando al lavoro agile, esso è quello che noi italiani generalmente vogliamo intendere con il termine smart working, ovvero un contesto nel quale il lavoratore, in completa autonomia, decide i tempi e i luoghi di lavoro senza essere vincolato ad una postazione fissa.
In altre parole, il lavoratore dipendente decide dove e quando lavorare.
Tale modalità di lavoro è regolata dalla Legge n. 81/2017, che declina tale concetto come segue:
“Le disposizioni del presente capo, allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, promuovono il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.”
TELELAVORO
C’è infine un’ultima sfumatura: il telelavoro, ovvero quello che gli inglesi chiamerebbero home working o remote working.
Questo termine indica un lavoro che si svolge a distanza rispetto alla sede centrale ed è tendenzialmente una scelta definitiva o a lungo termine che si basa su un preciso accordo contrattuale con l’azienda.
Diffusosi negli anni ’70 grazie allo sviluppo delle tecnologie informatiche, i teleworkers lavoravano per lo più da casa o in un luogo specifico decentrato.
Con l’Accordo Quadro del 2004, il telelavoro deve oggi seguire normative precise, come l’obbligo da parte del datore di eseguire ispezioni per assicurarsi regolarità nello svolgimento del lavoro, un adeguato isolamento dell’attività lavorativa da quella quotidiana e sicurezza per il dipendente e per le apparecchiature tecnologiche utilizzate.
È quindi piuttosto evidente la differenza tra telelavoro e il cosiddetto "smart working": per il secondo non è obbligatorio legarsi a un luogo fisico fisso in cui lavorare. La propria abitazione, una sede distaccata vanno benissimo, ma anche un ristorante, un pub, un parco o qualunque luogo in cui si possa portare un computer o uno smartphone.
Per approfondire: